Questa volta i censori possono dormire tra due guanciali.
Dopo le molte polemiche suscitate dalle precedenti opere, “Lo Zio di Brooklyn” e “Totò che visse due volte”, con la loro comicità graffiante, Daniele Ciprì e Franco Maresco ritornano al cinema.
Per i due registi palermitani, “Il Ritorno di Cagliostro” è un “ricomincio da tre”, una svolta nel loro percorso artistico.
Dopo alcune esperienze in teatro (“Palermo può attendere”) e la realizzazione di alcuni documentari su Luis Amstrong e Duke Ellington, “Il Ritorno di Cagliostro” può rappresentare un preludio ad un rinnovamento artistico dei due autori.
Un ritorno alla settima arte.
Un ritorno che è forse anche punto di partenza, punto nevralgico di non ritorno dal quale si parte per poi riapprodare in una più ampia riflessione sul cinema, in cui la dimensione autobiografica dei registi si lega indissolubilmente alla discontinua ma lineare narrazione filmica anche grazie ad un linguaggio che diviene, man mano, sempre più meta/comunicativo.
“Il Ritorno di Cagliostro è il nostro omaggio a tutti quegli uomini di cinema che dal cinema sono stati rovinati. Un film involontariamente autobiografico”, esordiscono i registi.
Come in un gioco di scatole cinesi Pirandellianamente inserite in altre scatole, con “Il Ritorno di Cagliostro” è il cinema che cita sé stesso, un cinema che celebra sé stesso, le sue vittorie, le molte sconfitte ma, soprattutto, la sua rinascita.
Nel passaggio alla narrativa, i due autori si sono portati con loro buona parte della galleria di maschere umane delle precedenti opere.
Tra i tartagliamenti di personaggi goffi con volti strani ed un uso incontrollato dello stretto dialetto palermitano, l'impatto surreale è pregnante.
Pregnante soprattutto, lo stile narrativo che, contaminandosi con l'abbondante uso del Flashback e con una impostazione alla “Zelig”, tenta di ricostruire le sgangherate (dis)avventure dei fratelli La Marca, ex fabbricanti di statue sacre e produttori cinematografici negli anni cinquanta della “Trinacria Film”, impegnati nella faticosa produzione del loro film di svolta: “Il Ritorno di Cagliostro” appunto.
Un film che non vedrà mai la vita a causa dei loschi legami che i due produttori ed il regista Pietro Grisanti intrattengono con alcuni esponenti della chiesa e della mafia.
Una pellicola perduta ma poi ritrovata nel 2003.
Una pellicola per la quale scenderanno in campo eminenti critici cinematografici (come ad esempio Tatti Sanguinetti), si ascolteranno testimoni dell'epoca, tentando così una accurata ricostruzione dei fatti.
Realizzato come un reportage, “Il Ritorno di Cagliostro”, presentato fuori concorso alla 60° Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, fa anche leva su una serie di scene da antologia in cui, i riferimenti subliminati si rifanno direttamente ad alcuni dei più grandi cineasti del novecento.
Come allora non rintracciare, nella scena del ballo dei sacerdoti, lo stile inconfondibile di Luis Bunuel??
Come non ricordare, osservando le scene dei provini agli attori “di strada”, il reportage “Comizi d'amore” di Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia??
Per far emergere le due linee temporali di narrazione, così, tra spezzoni in bianco e nero, a colori, in cinemascope, tra interviste a personaggi immaginari o reali e quindi, tra l'utilizzo di diversi formati cinematografici, l'immagine si smonta per poi ricomporsi in un unico prodotto, in cui, i raccordi tra le scene non destabilizzano l'indiscussa linearità della narrazione.
A Ciprì e Maresco va dunque riconosciuto, stavolta, il merito di saper divertire con sapienza come nessun altro nell'attuale panorama italiano, così come, di possedere una forza visiva eccezionale che, speriamo, sia di buon auspicio per una vera svolta nella loro carriera.
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La locandina del film
Uno degli strani personaggi del film
Una scena del film
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