CINEMA |
LA RECENSIONE DEL MESE |
FERRO 3
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Una mazza da golf. La mazza n° 3, quella che nel gioco del golf è la meno usata. Una pallina da lanciare in aria legata ad un albero. Una macchina digitale per catturare immagini. Il cinema a volte è anche questo. Rendere anormale e dunque, rappresentabile qualcosa che, agli occhi, appare come pura e mera consecutio dell'alternarsi di azioni perfettamente logiche. La vita di Tae-suk sembra un deposito di azioni disconnesse, un insieme di fatti che convergono e si distaccano contemporaneamente in una continua ricerca di senso. Un viaggio solitario che condivide con una giovane donna maltrattata dal marito. Giovani in fuga che si incontrano e si innamorano tra le case vuote dei loro cuori che aspettano solo di essere aperti. Una fuga verso la libertà in perfetto equilibrio tra sogno e realtà ed un segreto da condividere. Porta dopo porta, i due ragazzi incollano volantini sulle serrature delle case e, successivamente, si intrufolano in quelle in cui lo stesso volantino non è stato tolto. Dalle case che abita temporaneamente, non rubano nulla Tae-suk e la giovane Sun Hwa. Vi rimangono solo a fare la guardia per qualche giorno, finchè i padroni non ritornano. Lui aggiusta oggetti non funzionanti e si fa qualche foto archiviando così, immagini di case vissute. Lei lo osserva, silenziosa. Lava la biancheria sporca che, di volta in volta, trova di casa in casa e si fa tagliare i capelli da lui. Poi, rimettono tutto a posto e se ne vanno in un'altra casa. Un giorno, in una casa, scoprono il cadavere di un vecchio. Al morto celebrano un funerale decoroso e poi cominciano a vivere nella sua casa. Ma i loro brevi giorni di felicità finiscono quando arriva il figlio del morto, che chiama la polizia. Qui l'intreccio narrativo si complica: Tae-suk è accusato di omicidio, violazione di domicilio e rapimento. Sun Hwa invece, è riportata dal marito e, mentre aspetta il giorno che il suo amato esca da galera, Tae-suk trova un modo segreto ed originale per far tornare la felicità nella vita della sua amata. Il film, tutto giocato sulla metafora, riesce comunque a catturare lo spettatore. Da una parte, il tema dell'evasione e della libertà che conduce direttamente al grande cinema “giovane e arrabbiato” di Terence Malick (chi non ricorda “La rabbia giovane”?); dall'altra la tipica escursione pioneristica in solitaria alla “Dillinger è morto” di Marco Ferreri in cui la musica diviene l'unico corpus fondamentale capace di amalgamare e mantenere insieme immagini e intreccio narrativo. Super favorito dal pubblico, il film è riuscito a portare a casa solo il Premio per la Miglior Regia alla sessantunesima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia. |
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Samuele Baccifava |
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