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SERGIO RUBINI

Anche stavolta UniBox è riuscito ad intrufolarsi. Abbiamo beccato Sergio Rubini alla prima edizione di Civitanova Film Fest e ci ha concesso questa intervista.

CIVITANOVA FILM FEST - www.civitanovafilmfest.it (24 luglio 2003):

 

Artisticamente Sergio Rubini nasce con il Teatro (coll. Con A.Calenda), passa per la Radio e approda al cinema. Quali tra questi tre mezzi di comunicazione gli ha dato più gratificazioni? Quale è più diretto nei confronti del pubblico?

Bè, il cinema, in qualche modo comprende il teatro, la radio…. Non voglio sembrare entusiasta, però il cinema è un modo espressivo articolatissimo, complicatissimo, affascinante ma, in certi momenti ti sembra perfetto… Quando io sono arrivato al cinema, lentamente… Quando ho fatto “ Tutto l'amore che c'è ”, che ho fatto a quaranta anni (ne ho quaranta quattro)... Lì mi è sembrato di aver capito qualcosa… Ma solo una cosa piccola, di quanto il cinema fosse un mezzo potente di cui un autore si può servire per poter in qualche modo tentare di rendere partecipe qualcuno della propria esperienza, di una propria esperienza emotiva… Però sai… Ti metti di fronte ad un quadro e va bene comunque… Insomma alla fine il supporto è la penna con cui uno decide di scrivere la propria esperienza.

Rubini regista ma anche attore. Qual è la parte che le si addice di più? Quella in cui da il meglio di sé?

Io penso che uno che decide in qualche modo di fare queste due cose, come ho fatto io, sia un matto, un malato… La compresenza di questi due aspetti è l'espressione evidente della schizzofrenia incurabile. Personalmente, con gli anni, mi piace di più fare i film… Mi sembra quasi che il mestiere dell'attore abbia più a che fare con la gioventù. E per cui, passando gli anni, mi sembra che quest'aspetto s'allontani in qualche modo… Sembra che questa possibilità, questa voglia in fondo di cambiare pelle sia una cosa tipica proprio della gioventù… Mentre, accettare di fare un'indagine interiore, tirar fuori un film è una cosa che ha a che fare con la maturità. Per cui, personalmente, ultimamente mi da più gioia pensare a scrivere dei film piuttosto pensare di prendere un aereo… Andare da una parte, fare quel mestiere irresponsabile, che poi in fondo è il mestiere dell'attore.

Ma come si riesce a dirigere se stessi?

Non si riesce. Si pensa all'inizio di dover trovare, ad esempio, un buon aiuto regista… Pensavo trovo un buon aiuto, poi faccio il mio ciak poi vado da lui e dico: “come l'ho fatta?”… Però poi non ci si fida, è complicato fidarsi… Nel momento in cui si trova qualcuno di cui fidarsi, si è trovato un altro regista e per cui, a quel punto, uno gli consegna direttamente il film in mano e gli dice: “Fallo te”… Quindi, in qualche modo bisogna far da soli. In me tutto questo scatena una vera ossessione… Perché è innaturale mettere in scena… Tu metti in scena chiaramente, poi devi guardare quello che hai fatto… Ed invece non puoi guardare, perché devi esser dentro… Per cui questo è innaturale. Nei miei film penso sempre di essere l'attore diretto peggio e credo anche che, nei miei film, nelle scene in cui io sono presente, siano anche le scene girate proprio peggio anche proprio dal punto di vista tecnico… Perché questa nevrosi che nasce fa si che io non sia… Però poi contemporaneamente qualcuno mi dice: “No, non è vero, stai dicendo un cumulo di cavolate, non è così”... Equindi, evidentemente avere una lucidità è complicatissimo… Adesso per esempio sto per girare un film dove ci sono tanti attori anche importanti e, purtroppo, anche lì ho un ruolo e spero appunto di poter lentamente tirarmi fuori… Anche perché frequento un buon analista da cinque anni e il suo compito è quello di compattarmi ed invece a tutt'oggi non sono ancora riuscito e sono ancora diviso in due.

Nel 1990 è stato scelto da Federico Fellini per il suo film “L'intervista”. Com'era Fellini dietro le quinte? Un ricordo.

Fellini era un mago, un alchimista, un prestidigitatore, era uno in grado di modificare la realtà…per cui era una specie di scenziato.

In Italia, negli ultimi periodi, i set cinematografici rifuggono le grandi metropoli (Roma, Milano) e riscoprono la provincia. Ricordiamo le opere di Pappi Corsicato, Emanuele Crialese, Daniele Vicari ed il set del suo ultimo film (“L'anima gemella”). Perché questa fuga? Si può parlare di Post- Neorealismo?

Mah.. è probabile che… Voglio dire siamo più portati a pensare che nella provincia ancora si annidino dei gangli vitati dal punto di vista emotivo e che, invece, le grandi città appiattiscono.
Le grandi città sono andate molto di moda negli anni ottanta, negli anni novanta… Forse. Insomma, sono periodi, sono flussi…Non vuol dire che ci può essere una storia degna di essere raccontata solo a Lampedusa ed invece a Milano non c'è gente che invece meriti un racconto.

Ritorniamo al suo ultimo film, “L'anima gemella”, un film intimista e a tratti Pirandelliano che indaga le profondità degli animi dei personaggi della storia. Oggi, in un mondo dominato dal gusto del bello e dell'estetica, quant'è importante interessarsi dell'anima delle persone?

Ma è fondamentale, è la cosa che facciamo noi quotidianamente, ognuno. E' l'unico modo per relazionarsi tra le persone. Poi è chiaro che siamo abbagliati da come si appare… Poi la società ha bisogno di vendere i propri prodotti, per cui, insomma, ci racconta che se non hai un taglio di capelli fatti in un certo modo, non vali… Ma poi la gente, per davvero, si relaziona sulla base di come è fatta dentro.

Qual è la fortuna del cinema italiano?

La fortuna del cinema italiano è aver avuto dei grandissimi maestri.

E la sfortuna?

E la sfortuna del nuovo cinema italiano è di avere un'eredità così pesante alle spalle.

 

 

 

 

 

 

Samuele Baccifava
   
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