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ENNIO REMONDINO

Cosa potrebbe succedere se durante una bella giornata di sole altoatesina, passeggiate e incontrate Ennio Remondino, volto conosciuto del panorama televisivo italiano? Succede che volete farci una chiacchierata, due o tre domande, ma dovete deciderle sul momento, perché non avete minimamente programmato l'incontro. Caos e confusione iniziale nella testa, ma in cinque minuti siete pronti.

 

Remondino ha iniziato la carriera nei primi anni settanta al “Secolo XIX” di Genova, sua città natale. Nel 1977 arriva in RAI e segue per tutti gli anni ottanta le principali vicende nazionali di terrorismo e mafia. Nel 1991 diventa reporter di guerra, portando testimonianze dall'Iraq, dalla Bosnia, dal Kosovo, dal Medio Oriente, dall'Afghanistan. Sempre a caccia della verità negli scenari di guerra, si è distinto per i servizi dai Balcani, durante i tre mesi ininterrotti di bombardamenti NATO . Doverosa la prima domanda:

Cosa vuol dire essere un cronista di guerra?

Ci risponde che il cronista è colui che racconta i fatti; ma il vero cronista è colui che sa dove guardare, che sa cosa cercare. Le qualità sono tutte qui: esperienza e capacità di dare le giuste chiavi di lettura ai fatti. Aggiunge che negli anni, il lavoro è cambiato, si è trasformato, si è adattato a uno standard televisivo, in poche parole è diventato un teatrino da salotto. Non si va più in cerca di notizie, le si aspetta. Non è un caso che nella guerra in Iraq ci fossero molti inviati donne. Le indagini sul campo sono relegate in secondo piano.

Ma quali sono le differenze tra i reporter italiani e quelli americani?

La risposta che ci dà è molto semplice: tutto sta nei mezzi che si utilizzano. La TV statunitense ha grossi interessi strategici nell'informazione e, quindi, fa grossi investimenti. In Italia, dove c'è scarsa tradizione, gli investimenti non si fanno.

Nell'informazione di guerra, come viene considerato il bambino?

Il bambino non è mai considerato, in sostanza la cronaca cerca sempre di cancellare questa componente umana. Il giornalista genovese afferma che lo si può vedere anche nei termini che vengono utilizzati. Nella guerra in Afghanistan e in Iraq si è usata la definizione “danni collaterali”, in riferimento alle morti dei civili e dei bambini. Differente è stato il caso del Kosovo, dove bisognava far vedere la popolazione che soffriva, per dare una buona giustificazione all'intervento umanitario della NATO. Intervento che in parole spicciole è tradotto con il vocabolo guerra. Comunque, se i bambini vengono citati, è solo ed esclusivamente per far commuovere il telespettatore.

Ci congediamo con un'ultima domanda:

Quale consiglio può dare a degli studenti di Scienze della Comunicazione che vogliono intraprendere la carriera di giornalista?

Beh, che dire… Bisogna trovare gli spazi. Il consiglio è entrare nella produzione reale. Significa, a detta di Remondino, che noi studenti di oggi siamo molto più avvantaggiati rispetto a venti anni fa. Ancora nel decennio scorso il giornalista non sapeva usare la telecamera o strumenti tecnologici vari, mentre noi ci conviviamo tutti i giorni. Un buon motivo per imparare le giuste tecniche e mettere in pratica la nostra dimestichezza con il linguaggio delle immagini, quando saremo messi alla prova.

Lo ringrazio e ci salutiamo con una calorosa stretta di mano. A presto Ennio!

 

 

 

Carlo Scheggia
   
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